Ci incontrammo la prima volta tra i banchi della scuola media Domenico Tinozzi di Pescara. Ho ritrovato un’ingiallita foto del ’53 siamo una ventina di ragazzi spavaldamente schierati su tre file sul terrazzo della scuola in una giornata di primavera. Al centro l’inossidabile professore di lettere Francesco Barberini. Accovacciati in prima fila al centro io e lui sorridenti, gomito a gomito.
Di quegli anni ho il ricordo del chiasso che si faceva uscendo al suono della campanella; delle corse scapigliate nel campetto lì accanto; della complicità nello scambiarci i compiti e qualche merendina: sua mamma faceva splendide frittatine e la mia non era da meno con i panini alla marmellata. Di mio padre che veniva a prendermi in bicicletta incutendo un po’ di timore con la sua divisa di maresciallo dei carabinieri, e parlava con suo papà, alto e severo signore elegante in grigio scuro, importante avvocato di Cassazione. Poi ci ritrovammo nell’adiacente ginnasio liceo Gabriele D’annunzio, nella sezione D, dove cominciammo a diventare giovanotti. La classe era mista e tra le compagne alcune erano bellissime ma inaccessibili, ben più attente ai liceali delle classi superiori che a noi pischelli imberbi. La nostra mente cominciò ad ampliarsi di nozioni e ragionamenti. Quanto siamo stati fortunati ad avere avuto professori di quello stampo. Ascoltavamo affascinati quello di filosofia, De Filippis, pelato come un uovo, raccontare come favole i pensieri di Kant e Cartesio, e le vicende storiche come fossero partite di calcio; l’austero e pur timido professore di matematica Pace dal registro implacabile, quello di greco che faceva tremare con interrogazioni precedute da fatale suspence; la professoressa di storia dell’arte che arrancando col bastone faceva scoprire a noi inquieti e maleducati il fascino dei grandi artisti da Giotto a Michelangelo: scoprimmo solo dopo poi che la sclerosi l’avrebbe presto paralizzata. E lui, Barberini, il trapano esigente di latino e lettere. Dal ginnasio non ero più nello stesso banco con Emilio.. Piccoletto ero rimasto sui banchi davanti, mentre lui divenuto splingone era passato nei banchi dietro.
A volte mi sfotteva guardando dall’alto: “Enniuccio- così mi chiamava, hai una chierica in testa”. E’ per questo che quando potevo nelle foto di gruppo facevo di tutto per mettermi dietro di lui: in una foto del ‘59 mi si vede dietro sullo scalino e sfidando il severo preside Fobelli cercavo di fare le corna o mettergli pezzetti di carta in testa. Si erano formati gruppi per fisico e affinità. I più alti, Emilio, Zincai, Zuccaro, D’Urso, per tutti Orsetto erano accomunati dalla passione della pallacanestro che praticavano nella squadra Aurora al campetto dei Gesuiti sulla collina di Pescara sotto la guida del carismatico padre Guglielmo che li imbottiva di sport e vangelo. Io tagliato fuori, cercavo di rifarmi correndo i cento metri. E’ difficile che il una classe tutti riconoscano che uno studente sia il più bravo; ma questo avveniva con Emilio. Lo era senza strafare. Studiava meno degli altr,i ma era sempre il più preparato. Con discrezione e generosità, quasi in punta di piedi. Insomma, come poi lo avrebbe pennellato Walter Tobagi, aveva la faccia di uno che si fa copiare i compiti ( quando, lo so per certo, non li passava direttamente). La sua memoria aveva del prodigioso. Tra noi si era creata una complice simpatia , consolidata nel tempo, fatta di intimo sentire più che di parole. Se qualcuno mi veniva minaccioso vicino, era lì, quasi per caso, imponente con la sua altezza. Per un periodo ero andato a studiare a casa sua, da solo o con Carlo Mimola e Sergio Balducci, ora diacono. L’ultimo anno del ginnasio una brutta malattia aveva bloccato i miei allenamenti e avevo perso molte lezioni Gli debbo molto se non fui rimandato. Durante i compiti in classe, i compiti per lui erano finiti la prima mezzo’ora. Ma tardava a consegnare. L’ultimo anno, alla preoccupazione dell’esame si era aggiunta l’ansia di cosa avremmo fatto da grandi. Chi parlava di medicina, chi di ingegneria, architettura…I noi emergeva l desiderio di impegnarsi nel diritto. Forse risentivamo dell’atmosfera che si respirava a casa. Sentivo da mio padre quanto il suo fosse bravo giurista. Non di rado a casa sua mentre studiavamo, dallo studio entrava lui così alto ed austero da incutere soggezione. Si fermava un po’ a parlare con noi,finchè non giungeva premurosa mamma Armanda che con i suoi dolcetti interrompeva il dissimulato esame che ci faceva. Sorridevamo nel vedere Emilio che si alzava ad abbracciarla spesso cantando improvvisati stornelli. Andavo volentieri in quella casa dove con quei tanti fratelli si respirava un’atmosfera contagiosa di allegria.